La Beccaccia fa parte dell’ordine dei Caradriformi e della famiglia degli Scolopacidi.

Ha dimensioni medie, forme abbastanza tozze, becco lungo e dritto, occhi grandi posti molto indietro sulla testa rotonda, ali relativamente brevi, coda breve e zampe piuttosto corte. Il piumaggio in entrambi i sessi è di colore bruno-rossastro con barrature trasversali nere sul vertice e sul collo, parti inferiori finemente barrate di bruno scuro, becco carnicino con apice bruno scuro, zampe carnicino. Grigiastre.

In volo è ben riconoscibile per la sagoma tozza, il becco lungo ed il profilo arrotondato dell’ala.

Lunghezza 33-35 cm, peso 250-410 g.

Specie distribuita come nidificante in Europa, Asia e isole dell’Atlantico. Le popolazioni europee migrano a sud fino al Nord Africa. In Italia è di passo da metà ottobre a novembre e da febbraio ad aprile; è svernante nelle regioni meridionali. E’ segnalata la sua nidificazione in tutta la zona alpina e prealpina, nei boschi planiziali residui della Pianura Padana, nell’Appennino ligure, toscano ed emiliano. Frequenta boschi misti ricchi di sottobosco e radure sia di pianura che di montagna. Di carattere poco socievole, conduce vita solitaria, assumendo un comportamento indipendente anche se nelle vicinanze sono presenti altri esemplari. Possiede un volo assai vario, a volte lento e a volte veloce, in genere non molto alto; quando si alza in volo può essere silenziosa oppure far udire il caratteristico rumore delle ali simile al fruscio della carta. Terraiola, può muoversi pure ad andatura veloce e di rado si posa sugli alberi.

E’ dotata di udito e vista acuti. Ha abitudini crepuscolari e notturne e trascorre le ore diurne nei luoghi di rimessa in un sonno leggerissimo interrotto di frequente. Si ciba di vermi, insetti e loro larve, molluschi, crostacei, ragni, semi, germogli.

La stagione della riproduzione inizia col cerimoniale di corteggiamento da parte del maschio, che effettua prima un volo sulla zona ove si trova la femmina, poi una vera e propria danza attorno alla compagna. Avvenuto l’accoppiamento, la femmina prepara il nido in una cavità del terreno ai piedi di un albero o al riparo del sottobosco e vi depone in genere 4 uova, che cova per 20-21 giorni.

Alla cura della prole, che richiede circa un mese, partecipa anche il maschio. Caratteristico è il modo di trasportare i piccoli tra le zampe a ridosso del petto o sul dorso, quando un sentore di pericolo consiglia la madre di allontanarsi dal luogo in cui si trova oppure per portarli in ambienti adatti alla ricerca del cibo. Depone in genere una volta l’anno e talvolta due.


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Il gatto Bombay è una razza ibrida tra il Burmese bruno ed l’Americano a pelo corto.
Un caratteristico pelo nero e occhi d’oro, originario dell’america.

Un gatto molto affettuoso, smette raramente di fare le fusa, ha bisogno della manifestazione di molto affetto, di non essere lasciato solo se non per brevi periodi di tempo, ama la tranquillità e detesta i rumori troppo forti.

Il suo Pelo è di tipo corto,di tessitura fine che ricorda il raso, molto aderente alla pelle e di colore nero, bruno

Estremamente agili, i Bombay non hanno paura dei luoghi alti, amano giocare con la gente e fanno le fusa se presi in braccio; come i cani, sono in grado di riportare gli oggetti e può essere loro insegnato a camminare al guinzaglio. Tollera la compagnia del cane, ma non è sempre molto paziente con i suoi simili, detesta però la solitudine. Queste pantere in miniatura possono perfino fare la guardia alla vostra casa

Il pelo del Bombay, nero fino alle radici, è aderente al corpo, lucido come cuoio e morbido come la seta; gli ampi occhi ben distanziati sono di un colore intenso fra l’oro e il rame.

Le sue dimensioni vanno dal piccolo al medio, ma nel complesso questo gatto muscoloso è più pesante di quanto sembri.

Un dolce amico da coccolare.


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Un pensiero gratificante ci sarà senz’altro venuto alla mente, mentre d’estate gustiamo un gelato o un sorbetto per attenuare la calura.

ci sarà capitato di pensare quanto siano fortunati gli uomini di oggi rispetto agli antenati: bibite fresche, gelati, sorbetti e cassate forse un tempo non erano proprio così diffuse. Ma come facevano i nostri predecessori, durante l’estate, senza un frigorifero? Il problema della conservazione del cibo mediante il freddo ha impegnato l’intelligenza umana fin dalla preistoria: freddo, fumo, sale ed essiccazione furono da sempre i sistemi più diffusi per la conservazione degli alimenti. Modi per conservare la neve pressata, in ambienti chiusi e freschi ci arrivano dalla lettura degli scrittori classici e recentemente anche da studi archeologici sulla funzione di speciali ambienti interrati, costruiti a botte. Presenti un po’ dovunque, queste speciali strutture architettoniche hanno attraversato i secoli dal periodo romano fino all’invenzione delle macchine per fabbricare il ghiaccio. Una grande costruzione seminterrata, dal soffitto a volta, serviva a questo scopo nella villa dell’imperatore Adriano a Tivoli; la neve veniva raccolta durante l’inverno nelle montagne circostanti, pressata e intervallata a strati di paglia e foglie e convogliata nelle “neviere”. La raccolta e lo stivaggio erano eseguiti con qualche precauzione igienica, giacché i Romani la neve d’estate la consumavano disciolta, nonostante tuonassero gli igienisti richiamando all’attenzione dei consumatori i consigli del saggio Aristotele, che dovette intuire la presenza di microrganismi nella neve non troppo pulita.

Il vero e proprio sorbetto – che è il vero antenato del nostro gelato – arriva in Italia con la dominazione musulmana della Sicilia; sharāb lo chiamavano, cioè bevanda fresca, e dovette deliziare le assolate estati degli emiri nel palazzo della Kalsa. Anche i ricchi palazzi del regno musulmano prima e di quello normanno poi disponevano di capienti “neviere”, dove la neve vi veniva stivata proveniente dall’Etna o dai Monti Iblei. La presenza di questi grandi serbatoi per la neve pressata è presente nelle concentrazioni urbane di mezza Europa. In Italia i grandi palazzi signorili e i conventi venivano dotati di questi depositi che potevano trovarsi nei sotterranei o, se esterni alla costruzione, venivano ricoperti di terra sulla quale si facevano crescere alberi dalla chioma abbondante per mantenere sempre fresco il terreno sottostante.

Le famiglie più abbienti facevano grande uso di neve per confezionare bevande e sorbetti: i conventi napoletani, presso i quali, oltre ai già celebri dolci, era possibile approvvigionarsi, avevano raggiunto una rara perizia nella confezione di sorbetti, modellati e dipinti a fingere veri frutti che a malapena si distinguevano da quelli autentici. Nel sec. XVI, a sentire Alessandro Dumas, in Francia il gelato era sconosciuto, tanto è vero che quando Francesco I si reca a Nizza per quella che oggi chiameremmo una conferenza, con il papa Paolo III e l’imperatore Carlo Quinto, il suo medico personale gli riferisce stupefatto della strana usanza degli italiani di raffreddare il vino con la neve fatta arrivare appositamente dalle vicine Alpi. Solo verso il 1660 i parigini potranno gustare il sorbetto presso il Café Procope, aperto, inutile dirlo, proprio da un italiano in rue de l’Ancienne Comédie. Il salto di qualità nella confezione dei sorbetti sembra si debba ad un certo Bernardo Buontalenti, vissuto a Firenze nel XVI secolo, che, antesignano sostenitore del nostro moderno HACCP, dovette porsi il problema di come raffreddare il sorbetto senza utilizzare la neve e tutti i suoi microbi. Ecco dunque la brillante intuizione del nostro Bernardo che mescola il sale al ghiaccio in modo da ottenere temperature sufficientemente basse per poter mantecare un sorbetto; e di lì all’uso di miscelare l’acqua con il salnitro il passo è breve.

Il freddo, con il tempo, si fa industria e la richiesta sempre più pressante di questo dolce refrigerio dell’estate trova un grande aiuto nello sviluppo della tecnologia. Ed ecco col sec. XIX apparire le prime macchine da ghiaccio, sia per uso familiare, sia a disposizione dell’industria: stabilimenti per la fabbrica di blocchi di ghiaccio sorgono un po’ dovunque; a Roma sarà la Peroni a distribuirli in giro per la città a bordo di carretti tirati da grossi cavalli bianchi, che ancora le nostre nonne ricordano sorridendo. Una grossa mano alla produzione del gelato industriale è venuta dall’America, in particolare da Baltimora, dove verso la fine dell’Ottocento, un certo Fussell ebbe la geniale idea di congelare le eccedenze di latte per preparare il suo ice cream e quasi per caso è arrivata la successiva invenzione del cono, quando nel 1902 alla Fiera Mondiale di St Louis, un gelataio che aveva finito i piattini a disposizione per servire il gelato, si fece dare delle cialde da un pasticcere vicino. L’idea di trasformare le cialde in un cono fu quasi istantanea. Il gelato era ormai diventato un must per piccoli e grandi americani. E che dire dell’articolo comparso, durante la seconda guerra mondiale, precisamente il 13 marzo 1943 sul New York Times? Vi si leggeva di aviatori burloni che fissavano dei grossi contenitori pieni di gelato alla torretta del mitragliere posteriore sulle loro fortezze volanti: portato ad alta quota dopo una magari difficile missione in territorio nemico, il gelato tornava a casa (se e quando vi tornava) ben raffreddato e perfettamente amalgamato. Questo benedetto “progresso”, che ha portato la polluzione nelle acque, il buco nell’ozono e ha reso spesso irrespirabile l’aria di città, qualche beneficio in cambio ce lo ha pur dato! Dovremmo pensarci un po’ più spesso e con un minimo di riconoscenza quando, accaldati e assetati, ci lasciamo deliziare da un coloratissimo cono gelato.


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Se sussistono sempre dubbi su chi sia nato prima, se l’uovo o la gallina, altrettante incertezze sussistono su chi sia nato prima, se la zuppa o il cucchiaio. All’epoca in cui quella nostra antenata che viveva ancora nelle caverne e che per prima mise a cuocere i semi raccolti nell’acqua per ammorbidirli, preparando in questo modo la prima zuppa, dovette aver avuto qualcuno che si era ingegnato ad inventare una sorta di tegame.

Ma contestualmente dovette sorgere il problema di come consumare questa zuppa. Fonti storiche ed iconografiche, se ci assistono sui contenitori, non lo fanno per quanto riguarda il cucchiaio. Quel che comunque a noi importa è che lo troviamo già in forma evoluta ai tempi della Roma repubblicana. Piccoli, dal formato molto rustico, ma che assomigliano già ai nostri cucchiai moderni. Poi certamente, con l’evolversi della civiltà, anche i loro cucchiai si fecero più eleganti e si specializzarono nell’uso: di peltro, d’argento o d’oro, ce ne erano persino di quelli dal manico che terminava a punta e da una piccola paletta concava: con la punta si scalzava l’ostrica o il mollusco dalla sua valva e con il cucchiaino lo si prendeva per portarlo alla bocca.

Dal Medioevo in poi il formato andò specializzandosi ed impreziosendosi, soprattutto nel manico: relativi a quel periodo, ad esempio, si sono trovati cucchiai che avevano immanicatura a forma di Santi e di Madonne. In tempi bui, quando non era facile per molti mettere insieme il pranzo con la cena, era bene che, anche chi poteva, nel mettere in bocca una cucchiaiata di minestra, si ricordasse di ringraziare il Padreterno. Poi con il Rinascimento, la religione scomparve dai manici dei cucchiai e passò nelle mani degli orafi e degli argentieri e a partire dal Barocco fu tutto un inondare la posateria di pietre dure e preziose, smalti e nielli, fino ad arrivare ai nostri semplici e pratici cucchiai odierni in acciaio. Oggi, soprattutto, si sono specializzate le funzioni e così, già nel servizio d’argento della nonna, compaiono i cucchiai da minestra, quelli da dessert, i cucchiaini per il dolce, quelli leggermente più grandi per il the, quelli più piccoli per il caffè e quelli con la palettina adatta a raccogliere il gelato. Poi ci sono i cucchiaioni da servizio: quello più grande serve per il risotto, leggermente più piccolo e di forma diversa è riservato a differenti usi per servire le portate e non possiamo sapere se prima o poi qualche fantasioso produttore si inventerà un altro tipo di cucchiaio.

Sull’uso dei cucchiai è presto detto: quelli da tavola, si sistemano sulla destra del piatto, accanto al coltello e vengono accostati alla bocca dalla parte laterale e non dalla punta. I più grandi, da servizio, si sistemeranno in attesa di essere usati sull’apposito piano di servizio accanto alle altre posate. Quel che è divertente notare è che quando un attrezzo ha raggiunto il suo formato ottimale per l’uso cui è destinato, la sua foggia, nel tempo anche lontanissimo, non è mai cambiata. Se avessimo potuto invitare alla nostra tavola un antenato cavernicolo, magari il cucchiaio lo impugnerebbe non come facciamo noi, ma sicuramente saprebbe come servirsene; resta il dubbio sul gradimento della vostra pur ottima minestra, ma questo è un altro argomento.


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C’è disputa fra i filologi che si interessano di gastronomia sulla data alla quale far risalire la moda di dedicare a personaggi importanti le preparazioni di cucina. E’ possibile che questo uso sia cominciato in Francia nel periodo della Reggenza e sia poi proseguito sotto il regno di Luigi XV; tuttavia, già alla Corte di Luigi XIV si servivano piatti dedicati ai famosi.

Questa usanza è poi continuata per tutto l’Ottocento, accomunando principi e cocottes, condottieri e ballerine in un gran calderone profumato. A Louis Nointel, marchese di Béchameil, ad esempio, o più probabilmente al suo cuoco, si deve l’invenzione della famosa salsa, pietra miliare della grande cucina. E chi sarà mai quella Camargo, cui hanno dedicato un delizioso soufflé? Ebbene, Marie-Anne Camargo trionfava come ballerina nella Parigi della metà del Settecento: principi ed imperatori erano ai suoi piedi. A lei, celebre riformatrice della danza classica e creatrice del pas de basque, sarebbe stato dedicato il celebre Soufflé Camargo composto di mandorle e mandarini. Certo, William August, duca di Cumberland, che per oltre un ventennio calpestò i campi di battaglia inglesi alla metà del sec. XVIII, non sarebbe felice di sapersi passato alla storia per una famosa e ghiotta salsa alla gelatina di ribes e buccia d’arancia, profumata al Porto, ottima con la cacciagione, chiamata appunto salsa Cumberland.

Risulta essere, invece, ancora avvolto nella nebbia il personaggio della mitica Suzette che diede nome alle famose crèpes. Certe malelingue raccontano di una sera nella quale Edoardo VII, ancora Principe di Galles, sedeva con una splendida ragazza ad un tavolo dell’Hotel de Paris a Montecarlo. Lo chef servì in quell’occasione una sua strabiliante invenzione e, servendola personalmente in tavola, propose al principe di chiamarla Crèpes princesse. Edoardo, ammiccando alla sua bella ospite rispose al cuoco: “Se sono dedicate a lei, puoi chiamarle semplicemente Suzette!”. Beh, se la storia non è vera, è per lo meno bene inventata. Proseguendo su questa strada, è bene anche sapere che fu il celebre cuoco Montmirail a dedicare al visconte di Chateaubriand i famosi medaglioni tagliati dal cuore del filetto, così come è opportuno informare i teenagers appassionati di panini che il famoso tramezzino deve il suo nome al quarto conte di Sandwich, accanito giocatore di carte che non abbandonava mai il tavolo da gioco. Il suo maggiordomo, per non vederlo deperire rapidamente, lo sosteneva con fette di pane farcite con ottimo roastbeef. Non sappiamo con che cosa li innaffiasse, ma di certo il conte sopravvisse e con il panino anche il suo nome.

La celebre trota salmonata alla Cambacérès, farcita di gamberetti, è invece una nota invenzione dell’omonimo arcicancelliere di Napoleone Bonaparte: al congresso di Luneville, nel quale nel 1801 si trattava la pace tra Francia e Austria, l’arcicancelliere tirava i fili politici alla sua sontuosa tavola. Napoleone stesso dovette ad un certo punto intervenire per il ritardo con il quale i dispacci tornavano da Parigi, ritardo causato dal surplus di lavoro dovuto al trasporto delle derrate alimentari per la mensa di Cambacérès. Il nostro grande Gioacchino Rossini, peraltro, ha una lista di vivande che portano il suo nome tanto lunga da poter essere raccolta in un volume: dalla gallina, ai tournedos, dalle salse ai maccheroni, tutto rigorosamente guarnito con tartufi e fegato d’oca. Molte ricette sono sicuramente di sua invenzione, come quella dei celebri bucatini che lui stesso farciva di fois gras, servendosi di una apposita siringa di avorio e argento da lui inventata e che si era fatto costruire da un gioielliere parigino. E, per finire, ricorderemo che tra i grandi piatti della cucina francese ci sono i famosi “epigrammi di agnello”. L’aneddoto, probabilmente vero, ci porta in uno dei salotti letterari più prestigiosi della Parigi della metà del ‘700. Qui una dama “preziosa”, di non eccellente cultura, sente raccontare da un ospite di aver gustato qualche sera prima durante una cena, “degli ottimi epigrammi”. Non immaginando nemmeno lontanamente che si trattasse di versi letterari, tornata a casa la graziosa dama chiama il suo cuoco e gli ordina di preparare un piatto di epigrammi, per la cena importante che avrebbe offerto la sera successiva ai suoi illustri ospiti. Il cuoco, dopo una rapida ed infruttuosa indagine, non si perde d’animo e sui fornelli crea le famose cotolette di agnello. La sera dopo, gli ospiti compiaciuti fanno chiamare il cuoco e gli chiedono cosa fosse quella leccornia. “Epigrammi di agnello alla Michelet” rispose senza scomporsi. E l’ilarità generale venne scambiata dalla giovane signora per un’ovazione al suo cuoco.


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