Al vino di base viene aggiunto lo zucchero di canna -parte de liquer de tirage-. In tale modo aumenta la pressione interna (poichè 4,2 grammi per litro sviluppando la pressione di una atmosfera e nella spumantizzazione si mettono 25 grammi per litro, nella bottiglia si sviluppano circa 6 atmosfere di pressione).

Successivamente si aggiungono lieviti selezionati, tenuti segreti dalle varie cantine di produzione, ed il vino cosi trattato viene imbottigliato con tappo a corona e coricato in cataste. In due mesi i lieviti (saccaromiceti), aggrediscono lo zucchero resistendo al grado alcolico ed alla pressione e si agglutinano permettendo la presa di spuma. La pressione viene controllata con la bottiglia in cima alla catasta nella quale è inserito un manometro.

Dopo circa due mesi i lieviti hanno consumato tutto lo zucchero e il grado alcolico del vino si è alzato insieme alla pressione interna.
Avvenuta la presa di spuma la bottiglia continua a stare accatastata per un periodo di tempo variabile dai 22 ai 48 mesi o più durante il quale lo spumante acquista i suoi caratteristici sentori: si dice che «sta sui lieviti», che vanno eliminati, essendo essi presenti come farina gialla in sospensione.

Trascorso il tempo di spumantizzazione la bottiglia viene scrollata, permettendo cosi ai lieviti di stare in sospensione, e messa in appositi portabottiglie detti pupitre, dove verrà segnata con della carta e successivamente girata di circa 1/8 di giro (remuage sur la pupitre). Il giro completo della bottiglia avviene in una settimana. Durante questo periodo la bottiglia viene anche alzata in piedi, facendo depositare i lieviti nei bicchierino presente sotto il tappo. Si procede infine alla sboccatura del vino: viene tolto il tappo con il bicchierino pieno di lieviti.

Negli anni passati tale operazione era fatta al volo da cantinari molto abili (degorgement a la voleè), al giorno d’oggi quest’ultima fase viene effettuata gelando la bottiglia con appositi macchinari (degorgement a la glace) che congelano la parte del tappo della bottiglia e dopo avere tolto la corona avviene l’espulsione automatica dei lieviti per pressione. Lo spumante ottenuto viene quindi rabboccato con un liquore detto di rabbocco (liqueur d’expedition), tenuto anch’esso segreto dalle cantine, dosando il quale si otterrà il gusto brut, extra sec, sec, demisec, doux.

Sarà poi tappato indicando sull’etichetta la data di sboccatura, anche se non obbligatorio per legge, e sarà lasciato riposare per almeno un paio di mesi. Dopo tale data è bene consumare il vino entro 10-12 mesi. Trascorso infatti questo periodo il vino appare stanco e il perlage diventa inesistente. Quando lo spumante non viene rabboccato si ha il pas dosè.


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Ci sono diversi fattori che determinano la riuscita dell’acquisto di un buon scaldavivande elettrico per alimenti e ciò varia anche in base alle proprie esigenze personali ed economiche.

Attivo o passivo
I scaldavivande (o lunchbox) si distinguono principalmente in due categorie: attivi e passivi. Per scaldavivande attivo si intende uno scaldavivande che lavora attivamente tramite una fonte energetica per mantenere il pranzo fresco o caldo. Ciò significa che il pranzo può essere ad esempio scaldato tramite corrente elettrica.
Al contrario, uno scaldavivande passivo utilizzerà i suoi materiali per mantenere la temperatura della pietanza al suo interno. Per esempio, la borsa frigo classica da mare può essere considerata uno scaldavivande di tipologia passiva perchè sfrutta i materiali di cui è costituita (ed eventualmente del ghiaccio sintetico) per mantenere fresco il nostro pranzo.

Elettrico o USB?
Con l’avvento degli smartphone le prese USB si sono moltiplicate e ultimamente troviamo caricatori portatili a pochissimi euro. Ti potrebbe sembrare quindi scontato acquistare uno scaldavivande con presa usb vero?
In realtà, essendo la porta usb disegnata per tutt’altri utilizzi, non possiamo di certo aspettarci grandissime prestazioni da uno scaldavivande usb.
D’altra parte invece, uno scaldavivande elettrico per alimenti può sembrare molto scomodo (si deve poter accedere ad una presa elettrica da parete). Ovviamente anche in questo caso, la scomodità viene “annullata” da una maggiore efficienza dello scaldavivande stesso.

Consumo energetico
Che sia elettrico o usb, il vostro scaldavivande di tipologia attiva consumerà della corrente elettrica. Non c’è una regola ben precisa per andare a valutare quest’aspetto considerando che lo scaldavivande, di per se, è un piccolo elettrodomestico portatile di basso consumo.
Per questo motivo, secondo noi di scaldavivande.org, il fattore consumo energetico non deve essere preso in considerazione. In alternativa questo fattore può essere valutato, ma solamente come ultima spiaggia quando si è proprio alle strette e non si riesce a decidere tra due modelli molto simili.

Capacità
La capacità, intesa come quantità di cibo, di uno scaldavivande è molto importante. È misurata in litri ed è un fattore prettamente personale: se mangi come un canarino forse è il caso di prendere uno scaldavivande piccolo, se invece ti piace mangiare (come me) allora è meglio orientarsi verso uno scaldavivande più grande.

Il cavo d’alimentazione
Se compri uno scaldavivande elettrico controlla la lunghezza del cavo d’alimentazione e il voltaggio della presa elettrica, nonchè la sua distanza dalla superficie dove metterai lo scaldavivande.
Alcuni modelli di scaldavivande elettrico per alimenti sono anche dotati di riavvolgi cavo, in modo da non occupare troppo spazio una volta finito il suo lavoro.

Pulizia
Uno scaldavivande è composto dal contenitore principale e da due o più vaschette. Quest’ultime possono essere amovibili o meno. Non serve dire che la migliore scelta è uno scaldavivande con vaschette rimovibili, poichè la pulizia in questo caso sarebbe molto semplice da effettuare.
Molte volte in un apparecchio sono presenti due vaschette, di cui una non amovibile. In questo caso dovrai pulire la vaschetta con una spugna, senza però immergere il tutto in acqua.

Acqua o non acqua?
Molte tipologie di scaldavivande elettrico per alimenti utilizzano l’acqua come elemento termoconduttore per riscaldare le pietanze che ci siamo portati da casa. Come funziona? Semplice. Inserisci l’acqua in un apposito scomparto dello scaldavivande, lo accendi, l’acqua si scalda e con lei il calore viene “passato” alle tue pietanze.
Alcuni modelli più recenti non necessitano di acqua e utilizzano gel o altri materiali molto più efficienti in termini di termoconducibilità.

Velocità e Temperature
Generalmente non sono disponibili grandi impostazioni negli scaldavivande elettrici moderni. La loro forza è proprio la semplicità d’utilizzo: ci metti il cibo, lo porti via con te, lo accendi e attendi che il pranzo si sia scaldato a dovere. Solitamente ci vogliono dai 30 ai 45 minuti per riscaldare le pietanze in modo accettabile.
Per questo motivo non ti spaventare se non vedi regolatori di temperatura, timers o altro. Non ne avrai bisogno!

Conclusioni
Avere uno scaldavivande per alimenti vale a dire risparmiare denaro per il pranzo a lavoro ed è una base di partenza per mangiare più sano e in modo responsabile, utile soprattutto per chi decide di seguire qualche dieta ferrea che risulterebbe difficile, se si deve andare a mangiare in ristorante o in una mensa.


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Un pensiero gratificante ci sarà senz’altro venuto alla mente, mentre d’estate gustiamo un gelato o un sorbetto per attenuare la calura.

ci sarà capitato di pensare quanto siano fortunati gli uomini di oggi rispetto agli antenati: bibite fresche, gelati, sorbetti e cassate forse un tempo non erano proprio così diffuse. Ma come facevano i nostri predecessori, durante l’estate, senza un frigorifero? Il problema della conservazione del cibo mediante il freddo ha impegnato l’intelligenza umana fin dalla preistoria: freddo, fumo, sale ed essiccazione furono da sempre i sistemi più diffusi per la conservazione degli alimenti. Modi per conservare la neve pressata, in ambienti chiusi e freschi ci arrivano dalla lettura degli scrittori classici e recentemente anche da studi archeologici sulla funzione di speciali ambienti interrati, costruiti a botte. Presenti un po’ dovunque, queste speciali strutture architettoniche hanno attraversato i secoli dal periodo romano fino all’invenzione delle macchine per fabbricare il ghiaccio. Una grande costruzione seminterrata, dal soffitto a volta, serviva a questo scopo nella villa dell’imperatore Adriano a Tivoli; la neve veniva raccolta durante l’inverno nelle montagne circostanti, pressata e intervallata a strati di paglia e foglie e convogliata nelle “neviere”. La raccolta e lo stivaggio erano eseguiti con qualche precauzione igienica, giacché i Romani la neve d’estate la consumavano disciolta, nonostante tuonassero gli igienisti richiamando all’attenzione dei consumatori i consigli del saggio Aristotele, che dovette intuire la presenza di microrganismi nella neve non troppo pulita.

Il vero e proprio sorbetto – che è il vero antenato del nostro gelato – arriva in Italia con la dominazione musulmana della Sicilia; sharāb lo chiamavano, cioè bevanda fresca, e dovette deliziare le assolate estati degli emiri nel palazzo della Kalsa. Anche i ricchi palazzi del regno musulmano prima e di quello normanno poi disponevano di capienti “neviere”, dove la neve vi veniva stivata proveniente dall’Etna o dai Monti Iblei. La presenza di questi grandi serbatoi per la neve pressata è presente nelle concentrazioni urbane di mezza Europa. In Italia i grandi palazzi signorili e i conventi venivano dotati di questi depositi che potevano trovarsi nei sotterranei o, se esterni alla costruzione, venivano ricoperti di terra sulla quale si facevano crescere alberi dalla chioma abbondante per mantenere sempre fresco il terreno sottostante.

Le famiglie più abbienti facevano grande uso di neve per confezionare bevande e sorbetti: i conventi napoletani, presso i quali, oltre ai già celebri dolci, era possibile approvvigionarsi, avevano raggiunto una rara perizia nella confezione di sorbetti, modellati e dipinti a fingere veri frutti che a malapena si distinguevano da quelli autentici. Nel sec. XVI, a sentire Alessandro Dumas, in Francia il gelato era sconosciuto, tanto è vero che quando Francesco I si reca a Nizza per quella che oggi chiameremmo una conferenza, con il papa Paolo III e l’imperatore Carlo Quinto, il suo medico personale gli riferisce stupefatto della strana usanza degli italiani di raffreddare il vino con la neve fatta arrivare appositamente dalle vicine Alpi. Solo verso il 1660 i parigini potranno gustare il sorbetto presso il Café Procope, aperto, inutile dirlo, proprio da un italiano in rue de l’Ancienne Comédie. Il salto di qualità nella confezione dei sorbetti sembra si debba ad un certo Bernardo Buontalenti, vissuto a Firenze nel XVI secolo, che, antesignano sostenitore del nostro moderno HACCP, dovette porsi il problema di come raffreddare il sorbetto senza utilizzare la neve e tutti i suoi microbi. Ecco dunque la brillante intuizione del nostro Bernardo che mescola il sale al ghiaccio in modo da ottenere temperature sufficientemente basse per poter mantecare un sorbetto; e di lì all’uso di miscelare l’acqua con il salnitro il passo è breve.

Il freddo, con il tempo, si fa industria e la richiesta sempre più pressante di questo dolce refrigerio dell’estate trova un grande aiuto nello sviluppo della tecnologia. Ed ecco col sec. XIX apparire le prime macchine da ghiaccio, sia per uso familiare, sia a disposizione dell’industria: stabilimenti per la fabbrica di blocchi di ghiaccio sorgono un po’ dovunque; a Roma sarà la Peroni a distribuirli in giro per la città a bordo di carretti tirati da grossi cavalli bianchi, che ancora le nostre nonne ricordano sorridendo. Una grossa mano alla produzione del gelato industriale è venuta dall’America, in particolare da Baltimora, dove verso la fine dell’Ottocento, un certo Fussell ebbe la geniale idea di congelare le eccedenze di latte per preparare il suo ice cream e quasi per caso è arrivata la successiva invenzione del cono, quando nel 1902 alla Fiera Mondiale di St Louis, un gelataio che aveva finito i piattini a disposizione per servire il gelato, si fece dare delle cialde da un pasticcere vicino. L’idea di trasformare le cialde in un cono fu quasi istantanea. Il gelato era ormai diventato un must per piccoli e grandi americani. E che dire dell’articolo comparso, durante la seconda guerra mondiale, precisamente il 13 marzo 1943 sul New York Times? Vi si leggeva di aviatori burloni che fissavano dei grossi contenitori pieni di gelato alla torretta del mitragliere posteriore sulle loro fortezze volanti: portato ad alta quota dopo una magari difficile missione in territorio nemico, il gelato tornava a casa (se e quando vi tornava) ben raffreddato e perfettamente amalgamato. Questo benedetto “progresso”, che ha portato la polluzione nelle acque, il buco nell’ozono e ha reso spesso irrespirabile l’aria di città, qualche beneficio in cambio ce lo ha pur dato! Dovremmo pensarci un po’ più spesso e con un minimo di riconoscenza quando, accaldati e assetati, ci lasciamo deliziare da un coloratissimo cono gelato.


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Le proprietà salutari e organolettiche del miele sono note da migliaia di anni. Fin dai tempi antichi era l’unico dolcificante che l’uomo usava, ed inoltre veniva considerato anche come farmaco, per curare e prevenire piccoli disturbi, e anche in cosmetica con risultati più che soddisfacenti. Nella mitologia greca e romana veniva considerato il “cibo degli dei”.

Come nasce il miele
Il miele viene prodotto dalle api, che usano il nettare dei fiori o per alcuni tipologie di miele anche secrezioni delle piante (es. miele di quercia). In poche parole, il nettare, una volta raccolto, viene disidratato dalle api che, in un secondo momento, aggiungono degli enzimi allo stesso e, solo successivamente viene lo depongono nei favi.
Dopo che il miele viene depositato, l’apicoltore, estrae le celle dei favi mediante un processo di centrifugazione con un attrezzo chiamato smelatore, e lascia il miele decantare in vasi di vetro. Il prodotto è sin da subito pronto all’uso. Le proprietà del miele variano in base al tipo di fiore, di pianta e del clima territoriale. Per conservare le sue caratteristiche, il miele deve essere estratto a freddo, cioè senza alcun intervento termico, infatti il miele sottoposto ad una temperatura di circa 45 gradi inizia a perdere le sue proprietà e a degradarsi.

I benefici del miele
I benefici del miele, che contiene antiossidanti, sono molteplici, adatti sopratutto per il periodo invernale ed autunnale. Le proprietà del miele aiutano a:
Assimilare il calcio e il magnesio per le ossa
Decongestionare
Il miele ha un alto contenuto di vitamine ed amminoacidi, che lo rende particolarmente adatto per la cura di raffreddore e tosse che ci attanagliano nei periodi invernali. In questi casi, ad esempio, per combatterli è consigliabile bere del latte caldo con un paio di cucchiaini di miele. Grazie alle proprietà antinfiammatorie e decongestionanti il miele attenuerà il bruciore alla gola e migliorerà la respirazione. Inoltre ha un’efficace azione sul metabolismo, sullo stomaco e sull’apparato respiratorio. È consigliato anche per l’alimentazione dei bambini dato che aiuta nello sviluppo dell’apparato muscolare e della crescita, e inoltre grazie alla sua digeribilità viene usato anche nell’alimentazione di persone anziane e debilitate.
Grazie all’alto contenuto di antiossidanti naturali, il miele aiuta, sia nella prevenzione che nei processi d’invecchiamento.
Oltre ai tanti rimedi naturali per la cute e per la pelle, Il miele risulta essere molto utile mescolando del miele con dell’olio di oliva. Questa miscela ottenuta si potrà sfruttare per la sua proprietà emolliente e idratare al meglio la cute.

La cristallizzazione e la conservazione del miele
L’aspetto del miele non per forza deve essere liquido/fluido, ma si possono trovare delle tipologie che hanno una consistenza più solida. La consistenza dipende dal tipo di miele, cioè dal tipo di fiore con cui è stato creato e dal clima. La cristallizzazione, non è altro che un processo naturale, che dipende dalla composizione e dalla temperatura del miele e può esprimere la sua genuinità. Ogni miele, ha una tendenza a cristallizzare differente che varia in base ad una maggiore o minore presenza di acqua e glucosio e dalla percentuale di zuccheri presenti nel prodotto. La cristallizzazione avviene naturalmente, per far ritornare il miele ad uno stato liquido, è sufficiente riscaldare il vasetto a bagnomaria stando attenti a non superare i 45 gradi. Un altro processo naturale che potrebbe dare fastidio al consumatore è la comparsa di un strato bianco in superficie. Quest’ultime non sono altro che particelle di ossigeno che si formano durante la centrifuga per estrarre il miele.
Si ricorda infine che la temperatura ideale per la conservazione del miele si aggira intorno ai 14 gradi ed al riparo dall’aria, l’umidità e la luce.


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Se sussistono sempre dubbi su chi sia nato prima, se l’uovo o la gallina, altrettante incertezze sussistono su chi sia nato prima, se la zuppa o il cucchiaio. All’epoca in cui quella nostra antenata che viveva ancora nelle caverne e che per prima mise a cuocere i semi raccolti nell’acqua per ammorbidirli, preparando in questo modo la prima zuppa, dovette aver avuto qualcuno che si era ingegnato ad inventare una sorta di tegame.

Ma contestualmente dovette sorgere il problema di come consumare questa zuppa. Fonti storiche ed iconografiche, se ci assistono sui contenitori, non lo fanno per quanto riguarda il cucchiaio. Quel che comunque a noi importa è che lo troviamo già in forma evoluta ai tempi della Roma repubblicana. Piccoli, dal formato molto rustico, ma che assomigliano già ai nostri cucchiai moderni. Poi certamente, con l’evolversi della civiltà, anche i loro cucchiai si fecero più eleganti e si specializzarono nell’uso: di peltro, d’argento o d’oro, ce ne erano persino di quelli dal manico che terminava a punta e da una piccola paletta concava: con la punta si scalzava l’ostrica o il mollusco dalla sua valva e con il cucchiaino lo si prendeva per portarlo alla bocca. Dal Medioevo in poi il formato andò specializzandosi ed impreziosendosi, soprattutto nel manico: relativi a quel periodo, ad esempio, si sono trovati cucchiai che avevano immanicatura a forma di Santi e di Madonne. In tempi bui, quando non era facile per molti mettere insieme il pranzo con la cena, era bene che, anche chi poteva, nel mettere in bocca una cucchiaiata di minestra, si ricordasse di ringraziare il Padreterno. Poi con il Rinascimento, la religione scomparve dai manici dei cucchiai e passò nelle mani degli orafi e degli argentieri e a partire dal Barocco fu tutto un inondare la posateria di pietre dure e preziose, smalti e nielli, fino ad arrivare ai nostri semplici e pratici cucchiai odierni in acciaio. Oggi, soprattutto, si sono specializzate le funzioni e così, già nel servizio d’argento della nonna, compaiono i cucchiai da minestra, quelli da dessert, i cucchiaini per il dolce, quelli leggermente più grandi per il the, quelli più piccoli per il caffè e quelli con la palettina adatta a raccogliere il gelato. Poi ci sono i cucchiaioni da servizio: quello più grande serve per il risotto, leggermente più piccolo e di forma diversa è riservato a differenti usi per servire le portate e non possiamo sapere se prima o poi qualche fantasioso produttore si inventerà un altro tipo di cucchiaio. Sull’uso dei cucchiai è presto detto: quelli da tavola, si sistemano sulla destra del piatto, accanto al coltello e vengono accostati alla bocca dalla parte laterale e non dalla punta. I più grandi, da servizio, si sistemeranno in attesa di essere usati sull’apposito piano di servizio accanto alle altre posate. Quel che è divertente notare è che quando un attrezzo ha raggiunto il suo formato ottimale per l’uso cui è destinato, la sua foggia, nel tempo anche lontanissimo, non è mai cambiata. Se avessimo potuto invitare alla nostra tavola un antenato cavernicolo, magari il cucchiaio lo impugnerebbe non come facciamo noi, ma sicuramente saprebbe come servirsene; resta il dubbio sul gradimento della vostra pur ottima minestra, ma questo è un altro argomento.


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